Barghouti libero

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BARGHOUTI LIBERO PARTNER DI PACE COME MANDELA

RILANCIO DEL COMITATO, IN SVILUPPO DELLA PROPOSTA ORIGINARIA DEL NOVEMBRE 2023:  LA LIBERAZIONE DEL LEADER PALESTINESE DETENUTO NELLE PRIGIONI ISRAELIANE NON SEMPLICE DIRITTO UMANO DA ATTUARE, BENSI' SCELTA STRATEGICA, DI NONVIOLENZA POIETICA , "PER TRASFORMARE GRUPPI UMANI NEMICI IN GRUPPI UMANI AMICI"

IL COMITATO DA (RI)ATTIVARE LO COLLEGHIAMO ALLA PROSPETTIVA DI APRIRE UNA AMBASCIATA DI PACE IN TERRITORIO PALESTINESE CON DUE UFFICI, UNO A TEL AVIV E UNO A RAMALLAH

Milano, 2 settembre 2025

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Per dare sostegno alla causa palestinese per la pace (le crisi che possono unificare la guerra mondiale a pezzetti vanno disinnescate!) - ed in particolare alla popolazione martoriata di Gaza -servirebbero oggi due iniziative concrete (quindi, ci sia concesso, di "nonviolenza poietica”) 1- spingere perché l'Assemblea ONU di settembre 2025 faccia di nuovo ricorso al meccanismo "Uniting for peace" decidendo di dar seguito alle cose molto precise già decise con la risoluzione del 18 settembre 2025. (vedi proposta di lettera sotto riportata. Raniero La Valle ci segnala l’opportunità di chiedere che l’Assemblea non si svolga a New York: “Trump le ha tolto la libertà negando il visto ai palestinesi. Sede alternativa? New Delhi presso la tomba del mahatma Gandhi”). 2- preparare una spedizione di diplomazia popolare di base a Tel Aviv e a Ramallah anche in vista della costituzione di una Ambasciata di pace. Il compito urgente sarebbe prendere contatti con l'opposizione, guidata dalle famiglie degli ostaggi, per aiutarla, con le possibilità che abbiamo di movimenti internazionali nonviolenti, nel risultato fare cadere il governo Netanyahu: la proposta di liberare Barghouti, partner di pace come Mandela, potrebbe servire allo scopo.

 

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Proposta n. 1 

Come l'ONU potrebbe agire subito per fermare il massacro dei civili in Palestina: appello delle ONG agli Stati membri. 

Con l'avvicinarsi di una scadenza chiave a settembre per l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, un meccanismo poco utilizzato, immune dal veto degli Stati Uniti, potrebbe portare protezione al popolo palestinese (non escludendo la dimensione militare) – se gli Stati lo attivano (lo riattivano!) con il voto. È una nostra precisa richiesta, come ONG interessate alla "pace possibile", per evitare derive che possano unificare la "guerra mondiale a pezzi" (cit. Papa Francesco).

Istituito da una risoluzione dell'era della Guerra Fredda adottata nel 1950 (risoluzione 377 A (V), il meccanismo "Uniting for Peace" autorizza l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) ad agire quando il Consiglio di Sicurezza è bloccato dal veto di uno dei suoi membri permanenti. Nell'ambito di questo meccanismo, l'Assemblea Generale potrebbe incaricare una forza di protezione delle Nazioni Unite, noi suggeriamo in una prima fase formata solo da "caschi bianchi" e "corpi civili di pace", di schierarsi in Palestina per proteggere i civili, assicurare aiuti umanitari, preservare le prove degli eventuali crimini commessi e assistere nella ripresa e nella ricostruzione.

Proprio lo scorso anno, il 18 settembre 2024, l’Assemblea generale dell’ONU ha fatto ricorso a “Uniting for peace” con una risoluzione (A/ES-10/L.31/REV.1. con 124 Stati a favore, 43 astenuti tra i quali l’Italia, solo 14 contro) che ha fissato scadenze critiche: Israele deve ottemperare agli ordini della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che sta indagando sul possibile “genocidio” commesso a Gaza, prescriventi misure da attuare per prevenirlo, la prima delle quali è porre fine all’occupazione militare della Striscia e dei territori palestinesi.

L'azione di alcune parti tecniche dell'ONU è da encomiare, ma la parte politica rischia di fallire se gli Stati membri non dimostrano una responsabile consequenzialità. Il Consiglio di Sicurezza è reso del tutto inutile sotto i vincoli impostigli dagli Stati Uniti e dai suoi alleati occidentali. "Uniting for Peace", applicato in coerenza, offre allora la possibilità di raddrizzare la nave delle Nazioni Unite evitando che la sua credibilità naufraghi sull'iceberg di un “genocidio” da scongiurare. Un'azione significativa da parte del Consiglio di Sicurezza è di fatto impossibile, ma il mondo non deve arrendersi di fronte a quel veto.  

Una nuova risoluzione dell'UNGA, adottata in coerenza con la precedente “Uniting for peace” del settembre 2024, potrebbe: 1. Ordinare ad Israele – e ad Hamas – il cessate il fuoco immediato. 2. Invitare tutti gli Stati ad adottare sanzioni globali e un embargo militare contro il governo israeliano (e contro Hamas). 3. Decidere di respingere le credenziali di Israele. 4. Imporre un meccanismo di responsabilità (come un tribunale penale) per affrontare i crimini di guerra e il genocidio su cui si sta indagando. 5. Riattivare i meccanismi antiapartheid delle Nazioni Unite. 6. Dare mandato a una forza di protezione multinazionale, suggeriamo non armata in una prima fase, di schierarsi a Gaza e in Cisgiordania.

Tutte queste azioni potrebbero essere adottate dall'Assemblea Generale con una maggioranza, a portata di mano, perché già raggiunta, di due terzi, aggirando il veto. E a questo fine potrebbe essere opportuno che l’Assemblea non si svolga a New York: i visti negati all’ANP dal segretario di Stato USA non sono accettabili e truccano il tavolo da gioco diplomatico. La stessa UE ha ufficialmente rilevato che la decisione è contraria alla legge internazionale (la Convenzione sulla sede delle Nazioni Unite del 1947): la partecipazione della delegazione palestinese alle discussioni dell'Assemblea generale va garantita anche per agevolare i riconoscimenti di diversi Stati membri, quelli annunciati e quelli che potrebbero aggiungersi, allo Stato di Palestina. Una sede alternativa rispetto a New York potrebbe essere New Delhi che ospita la tomba del Mahatma Gandhi.

È necessario impiegare bene ogni strumento disponibile, di fronte a orrori storici che pregiudicano la sopravvivenza stessa di un popolo, potrebbero seppellire il nascente progetto globale dei diritti umani, e minacciano la pace mondiale. Il consesso degli Stati non l'ha ancora fatto. L’ONU deve provare a essere coerente con sé stessa, e in fretta. Il massacro di civili innocenti, forse “genocidio” (noi non riteniamo improprio già usare questo termine), su cui la Corte dell’Aja sta indagando, e per il quale ha emesso misure cautelari “per prevenire danni irreparabili”, non deve continuare a imperversare a Gaza ed eventualmente diffondersi anche in Cisgiordania. E il 18 settembre segnerà la fine del termine già fissato dall'UNGA. Il momento di agire facendo seguire i fatti alle parole è adesso e vi invitiamo caldamente a farlo.

 

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Proposta n. 2

UNA AMBASCIATA DI PACE IN TERRITORIO PALESTINESE INTEGRATA CON LA CAMPAGNA PER BARGHOUTI LIBERO, PARTNER DI PACE SECONDO IL MODELLO MANDELA

L'idea, da parte nostra di Disarmisti esigenti & partners, di un'ambasciata di pace come strumento di diplomazia dal basso la riteniamo estremamente “poietica”, specialmente in un contesto così polarizzato come quello israelo-palestinese. Il modello che pensiamo di proporre, con due uffici, uno a Tel Aviv e uno a Ramallah, coordinati in una unica strategia politica, crediamo sia strategicamente intelligente perché riconosce la necessità di lavorare "all'interno" di ogni società, con le rispettive sensibilità e dinamiche. Il principio strategico, sulla base del valore del rispetto della vita universale, è l’obiettivo di “trasformare i gruppi umani nemici in gruppi umani amici”.

Un ponte tra le due parti La nostra proposta parte dalla premessa di una diplomazia popolare di base, che lavora in parallelo e, a volte, in anticipo rispetto a quella ufficiale. L'obiettivo non è sostituire i governi o le istituzioni, e neanche le forze di movimento locali, ma creare un terreno fertile per la pace dal basso. •             L'approccio "equivicino": Questo metodo, basato sulle teorie di Galtung, ed ovviamente sulla nostra esperienza, è cruciale. Non si tratta di essere equidistanti, ma di essere "equivicini," cioè, vicini a entrambe le parti, comprendendo le loro ragioni, sofferenze e prospettive, senza giudizio. L'ambasciata di pace, con i suoi due uffici, può diventare un luogo aperto e dialogico, dove si coltivano le relazioni, si costruisce la fiducia e si esplorano le vie di compromesso. •             Rafforzare le voci non “radicalizzate” ma “equilibrate”: entrare in contatto e sostenere coloro che sono disponibili al dialogo è un'azione fondamentale.  In un conflitto dove le narrazioni estreme tendono a dominare, dare visibilità e forza a chi cerca soluzioni nonviolente può fare una differenza enorme. L'ambasciata può agire come una cassa di risonanza per queste voci, facilitando la collaborazione tra le due comunità. E qui si innesta anche la proposta del Comitato per Barghouti libero, partner di pace sul modello di Mandela, progetto più specifico e urgente della Ambasciata.

•             Preparare il terreno per la cooperazione: l'ambasciata non si limiterebbe a un semplice dialogo. L'obiettivo finale sarebbe preparare una cooperazione comune. Questo potrebbe tradursi, nel medio periodo, anche in “progetti costruttivi” su temi come la gestione delle risorse idriche, l'agricoltura sostenibile, la salute o l'educazione. Tali progetti, ideati e poi gestiti congiuntamente, possono servire da modello per una futura convivenza e costruire una rete di interdipendenza positiva.

L’integrazione con la proposta sul Comitato per Barghouti libero

Ecco ora un primo approfondimento sull'importanza di integrare la campagna per la liberazione di Marwan Barghouti con l'idea di un'ambasciata di pace insediata ad hoc. L'accostamento con la figura di Nelson Mandela è un punto di forza fondamentale, in quanto fornisce una narrazione di grande impatto e universalmente riconoscibile. Ecco come, secondo noi, le due proposte possono integrarsi per creare una strategia unificata e coerente.

1. Barghouti come simbolo e partner di pace La campagna per la liberazione di Marwan Barghouti non è solo un atto di giustizia, ma una mossa strategica per la pace. •             Un leader per il compromesso: Barghouti è una figura rispettata sia tra i palestinesi che, in parte, anche tra gli israeliani più moderati, a differenza di altri leader più radicali. La sua storia di attivismo, il suo ruolo nella Seconda Intifada e il suo appello per una soluzione a due Stati dalla prigione lo rendono un candidato credibile per un dialogo futuro. •             Mandela palestinese: L'analogia con Mandela è fondamentale. Mandela è diventato il simbolo della riconciliazione e della fine dell'apartheid non solo per i sudafricani neri, ma anche per molti bianchi, che lo hanno visto come l'unica via per un futuro senza violenza. Allo stesso modo, Barghouti potrebbe diventare la figura catalizzatrice per un'analoga riconciliazione in Palestina e Israele.

2. L'ambasciata di pace come strumento di pressione e dialogo L'ambasciata di pace può diventare un braccio operativo decisivo della campagna per la liberazione di Barghouti, partner di pace sul modello Mandela. •             Uffici come centri nevralgici: L'ufficio di Tel Aviv può concentrarsi sul dialogo con i gruppi israeliani che credono nella pace, spiegando come la liberazione di Barghouti non sia una concessione, ma un passo strategico per dare una chance alla moderazione palestinese. In parallelo, l'ufficio di Ramallah può lavorare con i palestinesi per preparare un clima politico che accolga Barghouti come un leader che ha la forza e la visione per guidare un dialogo pacifico. •             Diplomazia dal basso e pressione politica: L'ambasciata di pace, come non ci stancheremo di sottolineare, lavora dal basso. Può organizzare incontri, dibattiti e workshop per sensibilizzare l'opinione pubblica sull'importanza della figura di Barghouti. Questo crea una pressione civile che può spingere i governi a considerare seriamente la sua liberazione come un punto di svolta.

3. La sinergia tra campagna per Barghouti libero e Ambasciata di pace

La forza della nostra proposta potrebbe stare nel modo in cui le due iniziative si alimentano a vicenda. •             Rafforzare le voci “equilibrate”: La campagna per Barghouti rafforza l'idea che esistono leader palestinesi disposti a lavorare per un compromesso. Questo dà credibilità all'ambasciata di pace e al suo obiettivo di rafforzare le voci non radicalizzate, dimostrando che c'è un interlocutore credibile. •             Preparare il terreno per il futuro: Se la campagna avrà successo, l'ambasciata di pace avrà già costruito le basi per il dialogo e la cooperazione tra le due parti. L'ambasciata può diventare il luogo dove i progetti di coesistenza e cooperazione, che si sono menzionati (gestione delle risorse idriche, agricoltura, salute), possono essere lanciati e gestiti sotto la guida di un leader riconosciuto. L'integrazione di queste due proposte è – come si è accennato - estremamente “poietica”, nel senso che genera un nuovo percorso per la pace, che non si limita a sperare in un cessate il fuoco, ma crea le condizioni politiche e sociali per una convivenza duratura. La figura di Barghouti diventa il ponte tra la speranza e la realtà, e l'ambasciata di pace il cantiere dove questo ponte viene costruito.

4. Il "modello Mandela": una scelta pragmatica per la pace

Individuare un partner di pace di pace non significa entrare nel merito del processo E’ cruciale sottolineare questo principio: essere un partner di pace non significa entrare nel merito dell'innocenza o della colpevolezza nel contesto di una condanna. Questo approccio sposta la discussione da un piano strettamente legale a uno politico e strategico, focalizzandosi sul potenziale di una persona nel facilitare la pace e la riconciliazione.

Il "modello Mandela" non riguarda l'approvazione delle azioni passate di una figura, né la validazione di un processo legale. Al contrario, si basa sul riconoscimento che una figura con una forte influenza politica, anche se incarcerata, può essere un attore indispensabile nel raggiungimento della pace. Nelson Mandela fu condannato e incarcerato, ma la sua leadership e la sua capacità di rappresentare un intero movimento lo resero un interlocutore inevitabile per porre fine all'apartheid in Sudafrica. Le potenze internazionali e i leader sudafricani che dialogarono con lui non lo facevano perché credevano che la sua condanna fosse ingiusta, ma perché capirono che senza di lui non ci sarebbe stata una transizione pacifica.

Applicazione al Comitato Barghouti libero

Per il "Comitato Barghouti libero", l'adozione di questo modello rappresenta una strategia di grande impatto. Invece di concentrare gli sforzi sulla legalità del processo di Marwan Barghouti, il Comitato può argomentare che la sua liberazione e il suo coinvolgimento sono una precondizione necessaria per il dialogo e la stabilità futura. Questo approccio ha diversi vantaggi: Supera la polarizzazione: Non obbliga le parti avverse a riconoscere l'innocenza di Barghouti, che potrebbe essere un punto di scontro insormontabile. La richiesta non è di annullare la condanna, ma di riconoscere il suo ruolo politico. Focalizza sulla soluzione: L'attenzione si sposta dal passato al futuro. La domanda non è "Cosa è successo?" ma "Come possiamo costruire la pace?". La sua figura, in quanto leader riconosciuto da ampie fasce della popolazione palestinese, è vista come un elemento essenziale per unificare il fronte palestinese e legittimare un futuro accordo di pace. Amplia la base di supporto: Questo ragionamento permette di coinvolgere attori internazionali, come l'Unione Europea, che potrebbero essere riluttanti a prendere posizione su una questione legale interna a Israele, ma che sono fortemente interessati a una soluzione pacifica del conflitto. L'argomentazione è basata sul principio universale che la pace richiede il dialogo con i leader più rappresentativi. Riepilogando, l'essenza del "modello Mandela" per il Comitato è un'azione pragmatica e lungimirante. Si tratta di riconoscere che in certi contesti politici, la necessità di pace e stabilità prevale sulle controversie legali passate. La liberazione di Barghouti non sarebbe una questione di giustizia per la sua condanna, ma un passo strategico indispensabile per costruire un futuro di pace.

5. L'urgenza della integrazione Campagna pro-Barghouti con gli uffici di pace in Palestina per un futuro di pace da preparare

La situazione attuale, con la forte pressione esercitata sul governo Netanyahu da parte delle famiglie degli ostaggi e di un vasto movimento d'opposizione, rappresenta un momento cruciale. In questo contesto di crisi e profonda incertezza, l'idea di istituire uffici di pace in Palestina non è un'utopia, ma una necessità immediata per aprire una via d'uscita al conflitto. Ecco i motivi principali che rendono l'apertura di questi uffici non solo auspicabile, ma urgente:

5-1. Sfruttare la mobilitazione di protesta Il movimento di protesta in Israele, guidato dalle famiglie degli ostaggi, ha già dimostrato una forza e un'influenza senza precedenti, scuotendo le fondamenta del potere di Netanyahu. L'apertura di uffici di pace, in questo momento, può sfruttare questa ondata di dissenso per contribuire ad  incanalare l'energia della protesta verso una soluzione politica. •             Punto di incontro per la pace: Un ufficio a Tel Aviv diventerebbe un hub per i gruppi di israeliani che non credono più nella soluzione militare. Offrirebbe un'alternativa concreta e un luogo fisico dove lavorare per una riconciliazione. •             Creazione di un interlocutore credibile: In un momento di grande sfiducia verso la classe politica, l'ufficio di pace, con la sua proposta di liberare Marwan Barghouti come leader per la pace, offre un interlocutore credibile sia per il movimento di protesta che per la comunità internazionale.

5-2. Azione dal basso e diplomazia civile A differenza della diplomazia tradizionale, spesso lenta e inefficace, l'idea di un'ambasciata di pace che lavora dal basso si adatta perfettamente all'urgenza della situazione attuale. •             Pressione politica dal basso: L'ufficio non si limiterebbe a colloqui ufficiali, ma agirebbe direttamente sulla società civile, organizzando eventi e sensibilizzando l'opinione pubblica sull'importanza della liberazione di Barghouti e sulla necessità di una pace duratura. •             Ponte tra le società civili: In un momento in cui i contatti tra israeliani e palestinesi sono quasi inesistenti, gli uffici di pace fungerebbero da ponti, facilitando incontri e progetti di cooperazione su questioni vitali come l'acqua e la salute, gettando le basi per una convivenza futura. In sintesi, l'apertura degli uffici di pace non è un gesto simbolico, ma una mossa strategica che intercetta la crisi politica in corso in Israele per proporre un'alternativa concreta. Collegare questa iniziativa alla figura di Barghouti significa dare un volto e un obiettivo a un percorso di pace che, fino ad ora, sembrava irraggiungibile.

Messa in pratica della proposta complessiva (Ambasciata più Comitato per Barghouti libero, Ambasciata per il Comitato per Barghouti libero) Una possibile attuazione del nostro progetto potrebbe prevedere la creazione di un'organizzazione snella e flessibile che, attraverso i due uffici, si occupi di: 1.           Mappatura e networking: Identificare e connettere individui, gruppi e organizzazioni che già lavorano per la pace “disarmata e disarmante” in Israele e Palestina. 2.           Formazione e workshop: Organizzare incontri, workshop e sessioni di formazione sul metodo TRASCEND e sulla risoluzione non violenta dei conflitti. 3.           Progetti congiunti: Promuovere e facilitare progetti di cooperazione che coinvolgano sia israeliani che palestinesi. 4.           Sensibilizzazione: Utilizzare l'ambasciata come piattaforma per diffondere storie di pace, successi nella cooperazione e narrazioni alternative a quelle dominanti. La nostra proposta potrebbe costituire – si spera – un esempio di come la pace possa essere costruita mattone dopo mattone, partendo dal dialogo e dalla fiducia reciproca.               

 

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APPELLO ORIGINARIO

BARGHOUTI LIBERO

COSTITUZIONE DEL COMITATO CHE SI BATTERA' PER LA LIBERAZIONE DEL LEADER PALESTINESE DETENUTO NELLE PRIGIONI ISRAELIANE

Documento originario dei Disarmisti Esigenti & partners 

rif. Alfonso Navarra (cell. 340-0736871) - Milano 11 novembre 2023

Primi firmatari: Maria Carla Biavati - Ginevra Bompiani - Daniele Barbi - Ennio Cabiddu -  Giovanna Cifoletti - Sandra Cangemi - Ada Donno - Alessandro Capuzzo Mario Di Padova - Cosimo Forleo -Sandro De Toni - Luigi Mosca - Roberto Morea - Roberto Musacchio - Teresa Lapis - Enrica Lomazzi - Paola Mancinelli - Antonella Nappi -  Francesco Lo Cascio - Tiziano Cardosi - Angelo Cifatte - Paolo Grillo - Vittorio Pallotti - Tommaso Sodano - Elio Pagani - Olivier Turquet- Guido Viale 

(La richiesta di adesioni è ancora aperta)

Proponiamo:

1) una lettera breve indirizzata al presidente dello Stato Israele Isaac Herzog

2) una versione sintetica dell'appello

3) un documento più ampio per costituire il Comitato con l'impegno determinato degli aderenti

4) la proposta del cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme: "Mi offro come ostaggio ad Hamas in cambio dei bambini rapiti il 7 ottobre"

5) la proposta, collegata alla campagna "Object war" co-promossa da War Resisters International, di ospitare in Italia, per ottenere il loro asilo politico, obiettori ebrei russi scappati in Israele dalla guerra in Ucraina e che rischiano di essere mandati sul fronte di Gaza. In un incontro online organizzato per venerdi 17 novembre 2023 (ore 18:00-20:00) la colleghiamo a una riflessione su una questione legata all’attualità politica che riteniamo di importanza decisiva: quale deve essere la prospettiva perseguita dal movimento per la pace nel conflitto israeliani-palestinesi-arabi: ha senso abbandonare la formula ONU “due popoli, due Stati”? O ci sono altre possibili soluzioni da sperimentare?

6 - poiché l'intervento militare israeliano a Gaza, indagato dall'ONU per "tendenze genocidiarie", si sta prolungando (siamo nel settembre 2024) e poiché Israele sta preparando alla guerra in Libano contro Hezbollah, il gruppo sciita collegato all'Iran, ecco che, in un preoccupante contesto di escalation di sofferenze e di pericoli, stiamo pensando di sviluppare questa nostra iniziativa in un appello politico che proporremo alla sottoscrizione dei gruppi nonviolenti e pacifisti. Si tratta di distinguere, con una presa di posizione chiara e netta, i costruttori di pace rispetto a due versanti fintamente opposti, ma a ben vedere convergenti nel risultato: 1) i burocrati della solidarietà umanitaria, che di fatto non si oppongono alla politica di Netanyahu (sotto inchiesta ONU per "tendenze genocidiarie"); 2) gli anti-imperialisti a senso unico, che vedono nel 7 ottobre di Hamas (crimine di guerra) "un atto di resistenza partigiana"; ed addirittura "l'inizio di una rivoluzione per tutti i popoli oppressi".

La bozza dell'appello, prima di essere sottoposta alle organizzazioni, viene discussa in un incontro online tra i singoli firmatari, convocato per domenica 22 settembre 2024, dalle ore 18:00 alle ore 20:00

Link per partecipare all'incontro: COSTRUIAMO PONTI, NON MURI NE' TUNNEL: 

https://us06web.zoom.us/j/87543174880?pwd=mB5h4WXwk3UiGCp2poGOZzHEwzLFaC.1


1) LETTERA BREVE

Un appello di (per il suo testo completo: ) 

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2) Ecco ora LA VERSIONE SINTETICA dell'appello

Marwan Barghouti, nato a Ramallah nel 1959, è chiamato il Nelson Mandela palestinese: tra i leader della Prima (1987) e della Seconda Infifada (2000) è stato varie volte nelle prigioni israeliane - la prima volta 18enne nel 1976 - ed è ormai consecutivamente detenuto da oltre 20 anni.
Così definisce sé stesso: "Sono un normale uomo della strada palestinese, che sostiene la causa che ogni oppresso difende: il diritto di difendermi in assenza di ogni altro aiuto che possa venirmi da altre parti”. Nel 2004 un tribunale israeliano, lo ha condannato a cinque ergastoli per omicidi e attentati, ma lui si è sempre dichiarato innocente dei capi d'imputazione che gli sono stati elevati contro.
Non c'è ragione per non credergli, ed Amnesty gli crede.

Dal nostro punto di vista interessato a spegnere un conflitto che può incendiare il mondo, è decisivo prendere nota che, se si candidasse alle elezioni presidenziali per la Palestina, sondaggi credibili lo danno per vincente nella stessa Striscia di Gaza, oltre che nella Cisgiordania amministrata dall'OLP.
Stiamo parlando di un leader amato e rispettato dai palestinesi, come appunto lo era Nelson Mandela dai sudafricani.
Non un pacifista identitario (neanche Mandela con l'ANC lo era) ma una persona sicuramente non fanatica, non accecata dall'odio, non votata all'occhio per occhio, che rende cieco il mondo. Insomma, non tra i fondamentalisti invasati, che dall'una e dall'altra parte del conflitto, si sia nella posizione del gruppo umano dominante o meno, sono i peggiori nemici dei popoli che pretendono di rappresentare.

Già, nel 2007, gli era stata promessa la grazia da parte di Shimon Perez, ora riteniamo che questa promessa di liberazione vada rispettata.

(Ovviamente in termini di provvedimenti giuridici efficaci ed adeguati alla realtà politico istituzionale locale,  che non siamo certamente in grado di individuare nella loro forma precisa dalla nostra posizione particolare nel conflitto sul campo). 

Chiediamo che Israele, con le sue istituzioni, compia un atto intelligente che contribuirà a togliere la parola alle armi e a svuotare i giacimenti di odio razzista in perenne coltivazione.
Diamo la possibilità ai palestinesi di votare, insieme ad altri, un leader che possa guidarli al dialogo e alla pace possibile. 
Così, con gli abissi di orrore e di terrore cui stiamo assistendo, non si può andare avanti, è ora di una svolta concreta per fare finire le ostilità nella regione!
Le armi devono tacere e la parola deve essere riconsegnata a una politica che sappia dialogare grazie a leader ragionevoli e disponibili a mettersi a discutere intorno a un tavolo.

La guerra deve essere espulsa dalla Storia ed è sempre una sconfitta per tutti. Nel mondo diventato villaggio globale non esistono più guerre "giuste", se mai ve ne fossero state in passato.
Per questa sacrosanta causa della pace noi sottoscritte/i, da europei coinvolti, in quanto donne e uomini "pacifici", ed in facile condizione di dimostrarlo, non indifferenti e non rassegnati alla barbara spirale dell'odio, vogliamo Barghouti libero, esigiamo che Israele lo liberi, aprendo le porte ad un futuro di speranza.
E ci impegniamo, responsabilmente e guidati dall'intelligenza strategica, a costituire un comitato che persegua con determinazione lo scopo, anche collaborando con le realtà che da anni sono impegnate nella lotta nonviolenta sul terreno locale.

 

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3) IL DOCUMENTO dei Disarmisti Esigenti per la costituzione del Comitato "Barghouti libero"

rif. Alfonso Navarra (cell. 340-0736871) - Milano 9 settembre 2023


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Appello per la liberazione di Marwan Barghouti - Costituzione di un comitato che persegua l'obiettivo
Ne discutiamo, per migliorarlo, oggi venerdi 3 novembre 2023 on line

Per il testo si vada anche su: http://www.disarmistiesigenti.org/2023/11/01/barghoutilibero/


Marwan Barghouti, nato a Ramallah nel 1959, è chiamato il Nelson Mandela palestinese: è stato varie volte nelle prigioni israeliane - la prima volta 18enne nel 1976 - e ormai consecutivamente da oltre 20 anni.
Così definisce sé stesso: "Sono un normale uomo della strada palestinese, che sostiene la causa che ogni oppresso difende: il diritto di difendermi in assenza di ogni altro aiuto che possa venirmi da altre parti”.
E' uno dei leader della prima Intifada delle pietre nel 1987, e - in West Bank - della seconda Intifada detta di Al-Aqsa del 2000; e del gruppo afferente ad al-Fatah, Tanzim.
Dopo gli accordi di Oslo del 1994 è eletto, nel 1996, nel Consiglio legislativo palestinese, in cui si è battuto per difendere il processo di pace tracciato dagli accordi citati: i "due popoli, due Stati".
Nel 2004 un tribunale israeliano lo ha condannato per cinque omicidi provocati da un gruppo armato, e di tre altri attentati.
Barghouti si è sempre dichiarato innocente dei capi d'imputazione elevati contro di lui.
Non c'è ragione per non credergli, ed Amnesty gli crede.

Dal nostro punto di vista è decisivo prendere nota che, se si candidasse alle elezioni presidenziali per la Palestina, sondaggi americani lo danno per vincente nella stessa Striscia di Gaza, oltre che nella Cisgiordania amministrata dall'OLP.
Stiamo parlando di un leader amato e rispettato dai palestinesi, come appunto lo era Nelson Mandela dai sudafricani.
Non un pacifista identitario (ma neanche Mandela con l'ANC lo era) ma una persona sicuramente non fanatica, non accecata dall'odio, non votata all'occhio per occhio, che rende cieco il mondo. Insomma, non inquadrabile nei fondamentalisti invasati, che dall'una e dall'altra parte del conflitto, si sia nella posizione del gruppo umano dominante o meno, sono i peggiori nemici dei popoli che pretendono di rappresentare.

Già, nel 2007, gli era stata promessa la grazia da parte di Shimon Perez, ora riteniamo che questa promessa di liberazione vada rispettata.

(Ovviamente in termini di provvedimenti giuridici efficaci ed adeguati alla realtà politico istituzionale locale,  che non siamo certamente in grado di individuare nella loro forma precisa dalla nostra posizione particolare nel conflitto sul campo). 

Chiediamo che Israele, con le sue istituzioni, compia un atto intelligente che contribuirà a togliere la parola alle armi e a svuotare i giacimenti di odio razzista in perenne coltivazione.
Diamo la possibilità ai palestinesi di votare un leader che possa guidarli al dialogo e alla pace possibile.
Così, con gli abissi di orrore e di terrore cui stiamo assistendo, non si può andare avanti, è ora di una svolta concreta per fare finire le ostilità nella regione!
Le armi devono tacere e la parola deve essere riconsegnata a una politica che sappia dialogare grazie a leader ragionevoli e disposti a sedersi a discutere intorno a un tavolo.

Sappiamo che Barghouti, in linea con la sua dirittura morale, non vuole essere liberato da solo ed oggi, rinchiusi nelle carceri israeliane, ci sarebbero migliaia di palestinesi, forse 6.000, tra i quali 550 ergastolani (circa), e oltre 1.200 sottoposti a detenzione amministrativa. Una formula di arresto che Israele adotta per segregare chiunque, senza un capo d’accusa, e trattenerlo in prigione senza un processo. Questa ha una durata di sei mesi, ma alla scadenza può essere rinnovata all’infinito. Tutto ciò è possibile grazie al pretesto che i detenuti possano pianificare un futuro reato. Il 95% dei prigionieri palestinesi sarebbe sottoposto a tortura e trattamenti disumani.

Ma noi non siamo nella posizione di Barghouti, non siamo palestinesi, e nemmeno israeliani, non viviamo sotto le bombe o i razzi, siamo nella posizione privilegiata di europei, che dobbiamo saper ben sfruttare tenendo alta la bandiera della ragionevolezza. E, nella condizione di immaginare un futuro di speranza, ci sentiamo soprattutto cittadini del mondo. Noi serviamo, dal basso, principalmente la causa della pace e solo secondariamente quella del popolo palestinese come quella di qualsiasi altro popolo che si senta oppresso.
La causa dell'Umanità è per noi più importante di ciò che oggi divide i due popoli, gli israeliani dai palestinesi, anche se tutte le ragioni fossero da una parte sola. Cosa che nei conflitti non succede mai, e questo conflitto arabo-palestinese non fa eccezione: ognuno ha le sue buone ragioni che vanno tenute in considerazione.
Dobbiamo tenere accesa la fiaccola dell'Umanità diventando un ponte per la pace e la conciliazione in un momento dove gli attori del conflitto, pur se stanchi dei massacri, per lo più non sono in grado di provare un sentimento di empatia reciproca.

Noi in questo nuovo millennio che avanza siamo per il motto: prima l'Umanità, prima le persone, prima i diritti umani, dell'Umanità e della Terra.
Oggi l'Umanità è su una sola barca in fiamme e se non la si fa approdare in un porto sicuro facendo pace con la Natura si va tutte e tutti a naufragare, Israele e Palestina inclusi. Si vuole considerare questo dato elementare, il compito prioritario e ineludibile di disinquinare e riequilibrare l'ecosistema globale, che ci propone la comunità scientifica internazionale? O, nonostante le COP sul clima, si vuole continuare a proporlo in coda a ogni ragionamento?

La guerra deve essere espulsa dalla Storia ed è sempre una sconfitta per tutti. Nel mondo diventato villaggio globale non esistono più guerre giuste, se mai ve ne fossero state in passato (forse abbiamo avuto guerre "necessarie", non "giuste": e i due concetti vanno distinti).
Per questa sacrosanta causa della pace noi sottoscritte/i, da europei coinvolti in quanto donne e uomini "pacifici" ed in facile condizione di dimostrarlo, non indifferenti e non rassegnati alla barbara spirale dell'odio, pretendiamo, ci si scusi il termine, Barghouti libero, esigiamo che Israele lo liberi, aprendo le porte a un futuro di speranza.
E ci impegniamo, responsabilmente e guidati dall'intelligenza strategica, a costituire un comitato che persegua con determinazione lo scopo, anche collaborando con le realtà che da anni sono impegnate nella lotta nonviolenta sul terreno locale.

 

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4) IL CARDINALE PIERBATTISTA PIZZABALLA, PATRIARCA DI GERUSALEMME, PRONTO AD OFFRIRSI COME OSTAGGIO AD HAMAS IN CAMBIO DEI BAMBINI RAPITI IL 7 OTTOBRE

(Alcuni promotori del Comitato stanno valutando se unirsi all'iniziativa)


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Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, si è dichiarato disponibile ad offrirsi come ostaggio al gruppo di Hamas in cambio della liberazione dei prigionieri rapiti dopo l'attacco ad Israele dello scorso 7 ottobre. 

«La mia disponibilità ad offrirmi come ostaggio riguarda tutti i bambini, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa o etnica, israeliani o palestinesi, vittime di questa insensata violenza». Il neo-cardinale fa proprie le parole del Santo Padre pronunciate all'Angelus di domenica 15 ottobre 2023: «Continuo a seguire con tanto dolore quanto accade in Israele e in Palestina. Ripenso ai tanti …, in particolare ai piccoli e agli anziani. Rinnovo l’appello per la liberazione degli ostaggi e chiedo con forza che i bambini, i malati, gli anziani, le donne e tutti i civili non siano vittime del conflitto. Si rispetti il diritto umanitario, soprattutto a Gaza, dov’è urgente e necessario garantire corridoi umanitari e soccorrere tutta la popolazione. Fratelli e sorelle, già sono morti moltissimi. Per favore, non si versi altro sangue innocente, né in Terra Santa, né in Ucraina o in qualsiasi altro luogo! Basta! Le guerre sono sempre una sconfitta!».

Pizzaballa si dice favorevole alla mediazione avviata dalla Santa Sede: «Abbiamo dato la disponibilità almeno per cercare di far ritornare gli ostaggi o almeno una parte di loro. Però la mediazione è molto difficile perché mancano gli interlocutori. In questo momento con Hamas non si riesce a parlare. La situazione è molto grave - prosegue il cardinale - Durante tutta la mia permanenza in Terra Santa ho visto tanti conflitti tra Israele e Gaza, ma questo è il più grande attacco mai registrato da anni. Israele ha risposto con spaventosi bombardamenti e i civili sono costretti a cercare rifugio dove non c’è. La situazione è instabile e in ogni momento potrebbe portare ad una spaventosa escalation».

 

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5)  Israele e Palestina: incontro online per due Stati cooperanti (ma speriamo in una loro trasformazione ed estinzione grazie all’autogestione dialogica dal basso) 

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Ne discutiamo online, anche con scopi formativi, venerdì 17 novembre dalle ore 18:00 alle ore 20:00, su un incontro zoom la cui registrazione sarà disponibile sull’archivio web di Radio Nuova Resistenza.

Questo il link per partecipare:

https://us06web.zoom.us/j/87543174880?pwd=mB5h4WXwk3UiGCp2poGOZzHEwzLFaC.1

 

Nel mentre ci stiamo organizzando, in quanto membri ICAN, per contribuire, dal 27 novembre al 1° dicembre, con un working paper ufficiale, alla Conferenza di New York sulla proibizione delle armi nucleari (saremo rappresentati al Palazzo di Vetro da Sandro Ciani) , abbiamo lanciato, Disarmisti esigenti & partners, la proposta di un Comitato per liberare Marwan Barghouti.  Questa idea la abbiamo presentata come un contributo a fare tacere le armi nel conflitto israelo-palestinese, svuotando i giacimenti di odio razzista in perenne coltivazione. “"La parola deve essere riconsegnata a una politica che sappia dialogare grazie a leader ragionevoli (dai due lati del fronte – ndr) e disponibili a mettersi a discutere intorno a un tavolo".

(si vada su: https://www.petizioni24.com/barghouti_libero).

rif. Alfonso Navarra (cell. 340-0736871) ed Ennio Cabiddu (cell. 366-6535384) - Milano 11 novembre 2023

Primi firmatari: Maria Carla Biavati - Ginevra Bompiani - Daniele Barbi - Giovanna Cifoletti - Sandra Cangemi - Ada Donno - Alessandro Capuzzo Mario Di Padova - Cosimo Forleo -Sandro De Toni - Luigi Mosca - Roberto Morea - Roberto Musacchio - Teresa Lapis - Enrica Lomazzi - Paola Mancinelli - Antonella Nappi -  Francesco Lo Cascio - Tiziano Cardosi - Angelo Cifatte - Paolo Grillo - Vittorio Pallotti - Tommaso Sodano - Elio Pagani - Olivier Turquet- Guido Viale 

La nostra iniziativa di costruzione del Comitato Barghouti vorrebbe coinvolgere, in quanto membri War Resisters International (WRI), gli obiettori israeliani nella opposizione alla guerra in corso intervenendo sul caso dei giovani ebrei russi scappati dal fronte ucraino. In Israele dove si sono rifugiati ora rischiano di essere arruolati a forza e mandati a combattere a Gaza: dalla padella nella brace.

Dal 4 al 10 dicembre la campagna Object War, di cui la WRI è co-promotrice, invita all’azione per sostenere gli obiettori di coscienza e i disertori provenienti da Russia, Bielorussia e Ucraina. La nostra idea è: potremmo prendere dei giovani russi e portarli da Tel Aviv in Italia per ospitarli ed aiutarli ad ottenere l’asilo politico cui avrebbero diritto. Questo accadrebbe nel 50ennale della fondazione della Lega Obiettori di coscienza che celebreremo con un murales illustrante “Il disertore di Boris Vian” di fronte alla sede nazionale di Milano (incrocio via Pichi, via Gola).

Per acquistare profondità strategica, proviamo ora ad affrontare, prendendo come spunto due interventi, uno dello studioso di politica Franco Ferrari e l’altro del sociologo ecologista Guido Viale, una questione legata all’attualità politica che riteniamo di importanza decisiva: quale deve essere la prospettiva perseguita dal movimento per la pace nel conflitto israeliani-palestinesi-arabi: quella della formula “due popoli, due Stati” oppure lo Stato unico binazionale in Palestina? O ci sono altre possibili soluzioni da sperimentare?

Possiamo anticipare un presupposto dei ragionamenti che andremo a svolgere. Se fossero in buona parte valide ed integrabili, come a noi sembra, le considerazioni che andremo a sintetizzare, cioè, sia quelle di Ferrari che quelle di Viale, altri approcci apparirebbero colmi sì di buone intenzioni ma anche forieri di rischiose strumentalizzazioni e conseguenze politiche negative, proprio perché astratti e fuori dal contesto storico. Ci riferiamo ad altri appelli o slogan che sognano, probabilmente in modo non meditato, quale soluzione politica al conflitto in corso, “un unico Stato” nella regione geografica palestinese. Anche se invitano ad “uscire dalla gabbia attuale” e auspicano di poggiare, giustamente, “sull'uguaglianza delle persone a prescindere dalla loro appartenenza e dal loro credo religioso”, spesso vivono la contraddizione di non parlare poi in concreto di diritti umani, sociali e culturali già violati e da difendere nel presente.

Non ha senso, in questo momento storico, ed è comunque del tutto dubbio che abbia un senso pacificatore, malgrado la motivazione della tensione utopica verso la pace, mettere sostanzialmente in discussione il diritto alla esistenza separata dello Stato di Israele. Questo sottinteso va esplicitato e, con dispiacere, non avallato, a maggior ragione se si ha chiaro il concetto gandhiano della “bellezza del compromesso”: si lavora non per la pace “giusta” (ogni attore ha il suo concetto di “giustizia”, negarlo è di per sé violenza) ma per la pace possibile, in quanto, ci si perdoni il ricorso a degli slogan , “la pace è la via” e “non c’è giustizia senza pace”.  

Facciamo mente locale e vediamo di cogliere quello che al buon senso dovrebbe mostrarsi come evidente: vi pare che vi siano le basi di un dialogo per la pace se A dice a B: "Tu non dovresti esistere, anzi proprio non esisti", e B si pone nei confronti di A con il medesimo disconoscimento esistenziale?

 

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Secondo Franco Ferrari (si vada su: https://transform-italia.it/stato-bi-nazionale-o-due-stati-per-due-popoli-quale-soluzione-per-la-palestina/ ), per rispondere all’alternativa: due o un solo Stato?, ci sono due questioni di principio da assumere in premessa.

La prima è il rifiuto degli stati etnici, la seconda è il riconoscimento e l’applicazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli.

Benché Israele nasca come“fatto coloniale”, non c’è dubbio che oggi gli israeliani siano un “popolo” che insiste su un territorio e come tale debba avvalersi del principio di autodeterminazione. Lo stesso evidentemente vale per i palestinesi e questo è un diritto, non una concessione subordinata al fatto che i palestinesi si “comportino bene”. Per molti israeliani, per loro natura, i palestinesi non possono “comportarsi bene” e quindi non potranno mai avere il “premio” dello Stato sovrano.

Oggi l’ipotesi dei “due popoli, due Stati” è fortemente indebolita, come dicono tutti gli osservatori onesti, dalle politiche israeliane, dalle politiche di annessione della parte araba di Gerusalemme est e dagli insediamenti di 700.000 coloni (sul numero esatto ci sono valutazioni diverse) nei territori occupati nel ’67. (…) Non si vede però come questi ostacoli svaniscano nell’ipotesi dello Stato unico.

D’altra parte, l’esistenza di due Stati non implica affatto l’esclusione di forme possibili, in un futuro che appare molto lontano, di confederazione o addirittura di unificazione in un unico Stato. Al momento però questa ipotesi appare ancora più difficile della realizzazione dei due Stati. Pensiamo alla difficoltà di coesistenza tra protestanti e cattolici nell’Irlanda del Nord e quanto lungo sia il percorso di una possibile riunificazione dell’isola in un unico Stato. Ancora oggi i protestanti celebrano la battaglia di Boyne del 1690 nella quale Guglielmo d’Orange sconfisse il cattolico Giacomo II.

I conflitti etnici, soprattutto quando sono stati caratterizzati da un elevato grado di violenza, e si mescolano ad altri elementi come quelli religiosi (chi può mettere in discussione il possesso di una terra se te l’ha promessa dio in persona?), possono richiedere tempi lunghi per essere riassorbiti e solo se cambiano gli aspetti strutturali e non solo quelli ideologici e di senso comune. La soluzione dei due Stati ha ancora alcuni vantaggi. Corrisponde alla soluzione legittimata dalle disposizioni dell’Onu. Ha il sostegno, almeno a parole, di tutte le maggiori potenze ed è quella che corrisponde al principio di autodeterminazione dei due popoli. Che poi venga utilizzata, come denunciano i comunisti israeliani, solo per coprire ipocritamente la realtà di fatto dell’occupazione israeliana è incontestabile ma non sufficiente per escluderla.

Dal punto di vista palestinese gli ostacoli principali sono rappresentati dalla debole rappresentatività e dalla mancanza di una strategia dell’ANP per uscire dallo stallo in cui si trova (e forse anche dalla volontà di farlo) e dalla divisione che si è prodotta tra Fatah e Hamas. Senza una ricomposizione unitaria su una linea chiara e realistica del movimento di liberazione nazionale palestinese, l’unico Stato realmente esistente e che tale resterà per un lungo su tutto il territorio della Palestina storica tempo, non può che essere quello israeliano che dispone della forza e della brutale determinazione necessaria ad imporra la propria soluzione”.

Guido Viale interviene nel dibattito con una proposta che può rompere molti degli schemi, diventati inamovibili per abitudine, che concepiscono la convivenza tra popoli solo in termini di rapporti di vertice definiti dalla dimensione statuale. (Si vada su: https://www.pressenza.com/it/2023/10/israele-e-palestina-due-stati-uno-o-nessuno/).

“(Si può invece immaginare il rapporto tra gruppi umani distinti nella forma di una estinzione degli apparati statali) a favore di una democrazia “dal basso” e confederale, che metta al centro i bisogni e le aspirazioni di ogni sua comunità.

Può sembrare un’utopia, ma bisogna cominciare a parlarne e non solo a proposito di Israele e della Palestina. Il Rojava dimostra che è una strada percorribile. Certo un intervento della “comunità internazionale” (un’entità che esiste sempre meno) a tutela dei diritti e dell’incolumità di tutte le comunità sarebbe indispensabile, ma lo sarebbe anche nel caso che si optasse seriamente per le soluzioni dei due o di un solo Stato.

Si tratterebbe in ogni caso non di un’utopia, ma di un esperimento anticipatore di soluzioni da riproporre in tutte le situazioni sempre più numerose di conflitto e di crisi “interetnica”. Un “esperimento” senza il quale il mondo sembra destinato a farsi seppellire dalle guerre o ad autodistruggersi per aver trascurato la minaccia che incombe su tutti più di ogni altra: quella del collasso climatico. La globalizzazione senza Stati è già stata in gran parte realizzata dalla finanza internazionale. Adesso è ora che a perseguirla siano invece i popoli.

Senza pretendere di essere esaustivi, i passi che nella situazione concreta sono ineludibili mi sembrano essere:

  • L’abbattimento delle barriere fisiche e di controllo su tutti i territori;
  • L’istituzione di una Commissione mista per la Verità e la Riconciliazione sull’esempio di quella messa in atto in Sudafrica;
  • La presa in consegna da parte di una commissione internazionale di tutti gli armamenti noti di entrambe le parti: dai kalashnikov all’atomica (molti sfuggiranno al controllo, ma si tratta di un work in progress);
  • La promozione di milizie miste per mantenere l’ordine pubblico composta di individui disposti a farne parte e a rispettarne le finalità;
  • La promozione di comunità miste tra tutte quelle reti che già ora ritengono di poter svolgere un lavoro comune (e tra queste un ruolo di primo piano spetta fin da subito alle donne);
  • La consegna a ogni comunità di territori sufficienti a garantirne la sopravvivenza;
  • Lo stanziamento di ingenti finanziamenti internazionali sotto un controllo congiunto degli enti donatori e dei rappresentanti delle due comunità.

 

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